Non c’è sull’etichetta
Pubblicato: 2006/07/01 Archiviato in: Io lo leggerei 10 commenti
Come il libro Fast Food nation di Eric Schlosser, si tratta di un libro inchiesta. "Non C’è Sull’Etichetta: Quello che mangiamo senza saperlo" (Einaudi, 2005), è la traduzione del libro "Not on the label" di Felicity Lawrence, giornalista del Guardian. L’autrice risale, lungo le filiere della produzione alimentare piú comune e a volte le sorprese sono scandalose. Prendete nota, io l’ho appena ordinato.
diciamo che la legislazione è chiara. Qualsiasi sostanza che non sia ingrediente, ma coadiuvante tecnologico può non essere dichiarato (anche se la legislazione entrata in vigore a novembre è più restrittiva, ad esempio con l’anidride solforosa, il lisozima, ecc).
Io ho avuto un’interessante chiacchierata con un chimico della più importante ditta di aromi mondiale. La cosa stupefacente è che pure lui ammetteva quanto alcuni aromi servissero per coprire alcune aggiunte.
“VETTORI” li chiamano, e quando sono gli ingredienti di un ingrediente a volte riescono a essere presenti, espletare la loro funzione e non essere dichiarati.
Lo stesso gioco si può fare quando (grossolanamente, e forse faccio un errore madornale, ma giusto per farmi capire) piuttosto che scrivere “CITRATO DI SODIO” scrivo negli ingredienti “SUCCO DI LIMONE”.
Io continuo a chiedermi che senso abbia (seriamente) inserire sigle, ingredienti, avvertenze su un’etichetta. Secondo me basterebbe la dicitura (o un marchio sostitutivo che indichi): gli organi competenti dichiarano che il presente cibo è conforme alla legislazione.
oppure: Gluten free
oppure ancora: Dolphin safe.
Comunque sia, dichiarare in etichetta gli ingredienti mi sembra serva a scaricare la responsabilità sull’acquirente.
Da consumatore, preferisco sentirmi rassicurato sul fatto che qualcuno controlli per me, rispetto ad essere obbligato a leggere queste clausolette comparabili a quelle di un contratto assicurativo…
basta, troppi spunti. Io il sasso l’ho gettato
Buona giornata
Davide
Ahia, cosa mi tocca leggere… ma ti sei reso conto della cosa pazzesca che hai scritto?!
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Io continuo a chiedermi che senso abbia (seriamente) inserire sigle, ingredienti, avvertenze su un’etichetta. Secondo me basterebbe la dicitura (o un marchio sostitutivo che indichi): gli organi competenti dichiarano che il presente cibo è conforme alla legislazione.
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Ma stai scherzando?! Io voglio sapere in un gelato al cioccolato quanto cioccolato c’è, di che tipo è, se è fatto con latte o con latte in polere reidratato, se c’è panna o grassi vegetali schifosi (benchè ammessi), se ci sono uova fresche o in polvere… già da quello si può capire se ho tra le mani una porcheria e più o meno il gusto che avrà. Se c’è dentro il 3% di cacao o l’8% di cacao il gusto cambio eccome!!! Dal punto di vista di un tecnologo alimentare il tuo ragionamento va bene, ma da quello di un consumatore è da spararti a vista!!! Guarda che prima di essere tecnologo alimentare tu sei un uomo che mangia!!!
@Davide: A me non basta che ci sia scritta “gluten free” perchè di questo appellativo si possono fregiare centinaia di prodotti, confezionati in maniera diversa, con materie prime differenti..No, non mi basta!
…e non basta no. Tanto per dirne un’altra così si penalizza chi lavora artigianalmente e con prodotti freschi.Ma chi glielo farebbe fare? oltre la prpria idea bella e pura c’è bisogno poi di venderlo il prodotto e venderlo ad un tantino in più che copra le spese inevitabilmente più alte. Davide ti capirei se tu vendessi prodotti chimici o attrezzature industriali. Se c’è scritto che siamo uguali rimane solo la differenza di prezzo.
Ciao Clà, che piacere ritrovarti! come stai? produci sempre vino? e il ristorante? lo hai aperto?
beh, io l’avevo detto. Il sassolino l’ho lanciato.
Diciamo che volevo arrivare proprio a questo quando ho inserito una piccola provocazione: il senso dell’etichetta.
Ha senso inserire, secondo me, la concentrazione di cioccolato, la quantità di succo di frutta, se gli ingredienti derivano da coltivazioni biologiche o integrate o eticamente prodotto senza sfruttamento di questa o quella popolazione.
Va bene. Di una torta fatta in casa voglio sapere la ricetta, ma dei microcostituenti (di ordine tecnologico) industriali, quale beneficio ne trae il consumatore conoscendone la presenza?
ripeto, il mio discorso è abbastanza di parte, lo voglio far restare estremista, ma per una causa che io ritengo giusta.Ovvero, non siamo tutti chimici in italia, e non ritengo corretto che, una volta acquistato un prodotto venga scaricata gran parte della responsabilità relativa al suo consumo grazie alla dichiarazione in etichetta. Il consumatore HA DIRITTO che qualcuno si esprima per lui. Capiscimi che io, casalinga, tutte le volte che compro una maionese leggo l’etichetta e mi chiedo se sto uccidendo poco a poco i miei figli perchè non so cosa sia la lecitina.
Per me l’etichettatura, come unico strumento di garanzia della sicurezza alimentare, fallisce nei suoi obiettivi.
Io sono convinto che gran parte della garanzia della sicurezza alimentare DEVE essere bypassata alle istituzioni, ma soprattutto che i consumatori percepiscano questo passaggio. In etichetta potrà essere scritto Carne Italiana. Saranno gli enti di controllo però a dirmi che la carne italiana che sto acquistando è migliore della carne, che ne so, svizzera. Altrimenti la dicitura in etichetta mi da fittizie garanzie.
Inoltre, il discorso dei loghi, non è mio. E’ una pubblicazione, abbastanza completa (food safety, 1999 hanno dedicato un’intero speciale), che indica quanto il consumatore (non gli esperti del settore) si senta protetto da queste indicazioni. E’ ovvio che vale solo per informazioni di carattere qualitativo (non quantitativo) ma tanto basta alla massaia, sapere che il prdotto non uccide i delfini, non contiene ogm, deriva da mercato solidale.
Sulla quantità di ingredienti, io preferisco la strada del controllo reciproco. Un esempio:se non sbaglio Unilever, Nestle, Sammontana, e le grandi in Italia, hanno pubblicato un codice volontario per la produzione dei gelati, che rispettano reciprocamente, che tra le altre cose, indica di non utilizzare coloranti (motivo per cui i ghiaccioli spesso non sono prodotti dalle grandi).
Questo mi sembra un buon approccio di cultura dell’alimentazione e tutela del consumatore. Forse ha più senso conoscere questa informazione che non leggere l’etichetta e notare l’assenza di coloranti.
Discorso gluten-free: è vero, è probabilmente fuori luogo e un po’ abusata questa parola. Diciamo che un mio amico, celiaco, ha fatto una tesi sui prodotti gluten free. La sua conclusione, purtroppo, è stata quella che piuttosto che aprirsi un nuovo mercato di prodotto gluten-free o una maggiore attenzione da parte di tutte le aziende (anche le produttrici di ingredienti) grazie alla dichiarazione in etichetta le aziende scaricano la responsabilità sull’acquirente inserendo diciture del tipo “può contenere tracce di glutine”.
La stessa cosa, vale per le nocciole e gli altri allergeni. Prodotti che non hanno ingredienti nocciole ma sono prodotti da fabbriche di medie dimensioni, in cui magari in un altro comparto lavorano modiche quantità di nocciole, piuttosto che incorrere in una causa, se la cavano con la dicitura.
Il mercato americano, è più abituato a queste stranissime diciture. Io la prima volta che ho letto su un cioccolatino Ghirardelli CONTIENE TRACCE DI NOCCIOLE mi sono chiesto: ma le nocciole fanno male?
e questo se lo chiedono tutte le massaie che non conoscono i discorsi che stanno alla base dell’etichettatura.
E poi vi sono negli open days universitari domande del tipo: ma il lattosio fa male? (non saremo mica tutti allergici al lattosio?)
oppure:
Alcuni vini contengono bisolfiti. Moriremo? (nota: in quale vino non si usano)
o ancora:
Io compro prodotti equi e solidali perchè non contengono l’acido ascorbico
e ancora (e questa è la migliore perchè l’ha detto uno studente al secondo anno di medicina. Per fortuna per me di roma):
Le maltodestrine sono degli anabolizzanti. Per questo le usano gli atleti.
Non lo so, io resto convinto che l’etichettatura ha una funzione. Ciò che leggo sul prodotto, per quanto lungo ed esaustivo, mi sembra fuorviante.
Chiedo scusa per la lunghezza, io ho argomentato le motivazioni del NO 🙂 spero di aver infiammato qualche animo
Mi piace cambiare idea quando ci sono motivazioni valide
Svusa, eh. Ma cosa cavolo vuoi mettere su un’etichetta.
Caso 1: nulla. (Ma bravooooo! E io come faccio a sapere cosa sto mangiando?!)
Caso 2: Contiene ingredienti ammessi per legge (è ovvio se no l’azienda verrebbe chiusa se utilizzasse prodotti non permessi dalla legge)
Caso 3: ingredienti dettagliati (chi sa leggerli capisce, chi non li sa leggere o si informa o lascia perdere)
Fare una cosa fra la 2 e la 3 non ha senso perchè scontenti entrambe le categorie (chi non gliene frega nulla e chi vuole sapere)
hai esattamente colto il senso della mia provocazione. Il fatto non è che le etichette non siano dettagliate al giorno d’oggi, o che il consumatore non faccia il suo ruolo. Il fatto è che c’è una percezione che ciò che conosce il consumatore “è meno” di quello che conosce il produttore.
Il riassunto di tutti gli altri interventi che-mi scuso- ho fatto abusando di questo post è questo:
è l’etichettatura uno strumento per compensare l’asimmetria informativa consumatore / filiera?
il mio parere è no.
Ed è in questo contesto che provoco, chiedendo e chiedendomi quali altre strade si possono percorrere.
Ciao, buona serata a tutti
Davide
Cominciamo con un pò di buona educazione alimentare nelle scuole? Meno latino e filosofia, più educazione alimentare!
Ciao Gianna, sì il vino lo produco ancora, al meglio delle mie possibilità e con tutto l’impegno e la passione che si possa. Il ristorante “sulla provinciale” invece non l’ho aperto e non lo aprirò, ho già abbastanza da fare così, anzi…
Quando capiti nei dintorni fermati a farti ‘na tazza di buon vino rosso a livelli quasi zero di solforosa. Giuro che da me è possibile! Poi in bottiglia un pochino ci si mette, l’essenziale, mai in eccesso.
Un saluto.