I giovani e la dieta di transizione – conclusioni e bibliografia

Che fare dunque?

Si puo’ aiutare i giovani a fare scelte alimentari piu’ attente.  Questo pero’ puo’ succedere quando il messaggio da parte delle istituzioni e’ piu’ chiaro e consistente.  In questo senso aiuterebbe se i vari ministeri (salute, politiche agricole) lavorassero insieme.  Alcune iniziative a breve termine dovrebbero essere rinforzate da iniziative o interventi a lungo termine.  Penso ad alcuni:

– migliorare i mezzi utilizzati per informare

– istruire i genitori affinche’ il primo buon esempio venga da casa

– elaborare interventi che utilizzino il buon esempio (‘role model’)

– scuole

– creare nuove norme sociali che creino l’ambiente adatto

Qualche idea concreta:

– la piramide non insegna la differenza che corre fra un alimento fatto in casa e uno preparato dall’industria…. addirittura include alimenti (come i biscotti, la birra) che in questo senso non sono in linea con il resto; il messaggio non e’ chiaro

– l’istruzione dovrebbe sempre essere sostenuta da prove.  Se una iniziativa educativa NON funziona, perche’ ripeterla senza capire dove non ha funzionato

– rimuovere le barriere che possano prevenire la comprensione delle etichette.  Questo ad esempio si potrebbe fare con il coinvolgimento della grande distribuzione (pensiamo ad una lista di additivi in uso disponibile al momento dell’acquisto, che spieghi al consumatore cosa sono)

– eventi educativi che coinvolgano bambini e adolescenti: questi eventi devono continuare con regolarita’.  Parlo di visite a fattorie didattiche, musei rurali etc, con il coinvolgimento dei genitori

– monitoraggio del trend dell’obesita’ in Italia; la consulenza con nutrizionisti dovrebbe essere resa gratis in ospedali, scuole, uffici

– sostenere la ricerca e le professioni ‘chiave’, ad es. il nutrizionista, che potrebbe essere abbinato al medico generico

– media: regolare la pubblicita’ degli alimentari, sopratutto quella rivolta ai bambini, anche seguendo l’esempio di quei paesi europei che hanno raggiunto un discreto successo

– tasse indirette : ad es. facendo pagare il parcheggio dei discounts o di quegli esercizi che vendono alimenti raffinati e non prodotti localmente;  questa iniziativa dovrebbe essere sostenuta con un maggior aiuto alle economie locali, ai produttori locali

– incoraggiare le imprese di catering a introdurre maggiormente certi alimenti. Ad es. organizzando delle degustazioni o veloci lezioni di cucina nei centri commerciali

– incoraggiare e sostenere i gruppi di societa’ civile.  Come dicevo prima, la Slow Food ha fallito nel rivolgersi ai giovani.  O semplicemente non pensa che sia necessario parlare il loro linguaggio, come diceva Marco.  Attivita’ rivolte anche ai giovani dovrebbero essere incluse nell’agenda di Slow Food. Gruppi di consumatori come quelli che in UK stanno finanziando la ricerca sui coloranti, dovrebbero crearsi e avere un ruolo piu’ attivo in queste faccende.


I giovani e la dieta di transizione in Italia (3) – problemi e sfide

L’aspetto ‘convenienza’ e’ diventato oramai piu’ importante del costo – se prendiamo il caso del McItaly, mangiare un panino – e quindi mangiare in fretta e furia quando e’ il momento giusto – puo’ pure essere piu’ costoso che non mangiare qualcosa che si e’ portato da casa, ad esempio.  Come mai, dunque, il costo non funziona come deterrente?  La ricerca mostra che fra le varie ‘barriere’ che portano gli italiani a non mangiare alternative piu’ sane (ad es. della ‘italianissima’ frutta o i piatti tipici della dieta mediterranea etc) l’accesso (inteso come facilita’ nel trovare un alimento piuttosto che un altro), la disponibilita‘ e la motivazione, proprio la motivazione gioca un ruolo forte nella scelta di quel prodotto, particolarmente fra le fasce medio-basse (Dibsdall et al: 2003).  Il governo tipicamente presume che i consumatori facciano le loro scelte razionalmente e logicamente, ma in verita’, come dicevo sopra, entrano in gioco altri fattori.  La scelta al momento dell’acquisto puo’ migliorare con l’adozione di nuove norme sociali (ad es. fumare in pubblico e’ ora visto come qualcosa di molto negativo) (NEF: 2006).  Ma se il ministro si fa fotografare mentre addenta questi panini… possiamo capire che effetto possa avere su chi di filiera sa ben poco, come ad es. gli adolescenti o tanti genitori!

L’attuale atteggiamento politico – in Italia come in altri paesi occidentali – e’ quella della ‘scelta informata’, che prende come scontato il fatto che fornendo informazione (istruzione, esortazione etc), e’ piu’ facile per i consumatori capire le loro scelte e conseguentemente mangiare piu’ sano.  Pero’ il concetto di ‘scelta informata’ puo’ non bastare: la ricerca mostra che il mangiar sano viene percepito come un compito difficile, determinato da variabili come la mancanza di tempo, l’eccessiva indulgenza personale e la determinazione (Lappalainen et al: 1997).  Spesso – come nel caso del McItaly – i prodotti pronti sono promossi come scelte ‘sane’ e giuste, creando confusione o addirittura indifferenza fra i giovani.

Qui la sfida sarebbe sostenere la scelta informata eliminando quelle barriere che possano impedire una corretta informazione  (Woolf et al: 2005).   Inoltre, a livello individuale, spesso preferiamo che ci venga detto cosa fare o cosa scegliere da qualcuno che noi stimiamo. In questo senso i nostri politici dovrebbero scegliere con molta attenzione i visi a cui affidare certe promozioni.  L’industria lo sa fare molto bene … ricordate la campionessa Fiona May?

La scelta alimentare non migliora in certi gruppi nonostante l’uso dell’etichettatura  (Aaron: 1995 e Holdsworth and Haslam: 1998).  Inoltre, nonostante da una parte si promuovino scelte alimentari ‘salutari’, dall’altra arrivano messaggi contraddittori  (come in questo caso).  Poiche’ le abitudini sono molto difficili da cambiare, messaggi discordanti causano ulteriore demotivazione, confusione e sfiducia.  Nel caso del McItaly il messaggio pare chiaro: il governo ha scelto di sostenere la grossa industria alimentare lasciando perdere invece il discorso salute e il discorso piccola industria, mercati locali e via dicendo.  E Slow Food?  Il movimento ha aiutato un po’ a parlare di certi problemi, ma il suo ruolo si e’ oramai delineato in maniera netta – coinvolgendo solo certi gruppi della popolazione e molto poco i giovani.

Che fare dunque?

Stefania Puxeddu


I giovani e la dieta di transizione in Italia (2)

Gli italiani stanno passando da una dieta di tipo mediterraneo  ad una dieta tipica delle societa’ industrializzate per diverse ragioni socio-culturali:

  • percezione della relativa salubrita’ / genuinita’ di tali alimenti; questo e’ sopratutto il caso dei surgelati.  Questa percezione viene rinforzata dalla etichettatura degli alimenti
  • mass media e pubblicita’, sopratutto in TV
  • facile accesso di tali alimenti o pasti pronti (si trovano un po’ ovunque)
  • sono pronti (come per il McItaly) o quasi pronti (come tanti semi-preparati in vendita in molti esercizi, pensiamo alle basi per le pizze o al pane stesso da infornare a casa), pertanto utilizzati da chi ha poco tempo per stare ai fornelli ma sopratutto poca voglia/tempo di pianificare il proprio pasto
  • molti considerano il cucinare come un evento che richieda molto tempo, e preferiscono trascorrere il loro tempo libero in altre attivita’
  • molti alimenti pronti sono esotici: se pensiamo ai kebabs o ai noodles di cui abbiamo parlato anche su questo blog: questi soddisfano la curiosita’ verso l’etnico e contribuiscono alla transizione da una dieta di tipo ‘tradizionale’ (ad es. mediterranea) a quella tipica dei paesi industrializzati

contribuiscono a questa transizione anche questi comportamenti:

  • l’idea di comprare questi prodotti viene ora generalmente accettata dalle donne che vengono tradizionalmente indicate come coloro che ‘danno da mangiare’ (sin dall’allattamento al momento della nascita), che ora cercano un’affermazione professionale
  • l’aumento di nuclei famigliari con un solo genitore o di ‘singles’
  • ore di lavoro piu’ lunghe
  • porzioni piu’ generose nei piatti: questo fatto viene da  molti indicato come reazione ad eventi storici (ad es. la seconda Guerra mondiale) dove sopratutto in Europa si soffri’ molto la fame
  • l’atto del mangiare viene usato come mezzo di negoziazione sia nelle famiglie (ad es. Come forma di protesta del figlio nei confronti dei genitori, la ricerca di una propria identita’ all’interno della famiglia etc) che nel settore lavorativo (si porta a cena fuori il proprio socio o il capo o la bella donna per fare una buona ‘impressione’)

Dalla fine della seconda Guerra mondiale, le iniziative governative hanno avuto come obiettivo la prevenzione del deficit vitaminico, il miglioramento degli standards di igiene e il facile accesso alimentare (leggi: alimenti buoni e non costosi per tutti).  Oggi invece le iniziative governative sono fondamentalmente legate all’informazione relativa ai problemi nutrizionali tipici dell’era moderna: l’abbondanza e l’abbondanza di alimenti ‘sbagliati’, ricchi di ‘calorie vuote’.

Nel suo ‘Guadagnare Salute’ il Ministero della Salute spiega che una buona dieta contribuisce a stare in salute.  MiPAAF, il ministro delle politiche agricole, ha lavorato molto per migliorare gli standards di etichettatura e per promuovere alcune filiere tipiche italiane (ad es. Il prosciutto di Parma, che anni fa era inaccessibile ai piu’, e’ ora piu’ diffuso non solo in Italia ma anche all’estero).

Stefania Puxeddu


I giovani e la dieta di transizione in Italia (1)

Riprendo qui la domanda proposta da Gianna nel post riguardante il McItaly:

possibile che non si sia trovata una alternativa per far conoscere ai giovani i veri e autentici prodotti del nostro patrimonio eno-gastronomico?”

Perche’ – aggiungo – presumiamo che ai giovani importi conoscere DAVVERO gli autentici prodotti del ns patrimonio eno-gastronomico?

Facciamo qualche passo indietro.  Sul sito del ministro leggiamo che l’iniziativa del McItaly è un grande obiettivo che il ministro stesso si era prefisso e che è stato realizzato – ‘ consentendoci di guardare al futuro e di allargare gli orizzonti della nostra agricoltura. Un network mondiale come McDonald’s rappresenta un importante sbocco in nuovi segmenti di mercato per i nostri contadini’. Leggiamo ancora: ‘Per iniziare, McItaly sarà distribuito nei 392 punti vendita italiani, ma dovrà diventare un must internazionale, consentendo ai prodotti del Made in Italy di fare il giro del mondo. Il 75% dell’agroalimentare, infatti, viene immesso nella grande distribuzione.

 Un messaggio di sostegno forte, insomma, per quella parte dell’industria agroalimentare che sceglie di produrre in volumi.  Quale il target prefisso?  In generale, quello dei giovani, quello dei singles che non hanno voglia di cucinare e apprezzano l’aspetto ‘convenienza’ del prodotto, quello di chi si trova in centro (o nel centro commerciale) per motivi personali o di lavoro e che pensa di spendere meno e ‘meglio’ la propria pausa pranzo.  E poi naturalmente il grande mercato della distribuzione all’estero, con l’obiettivo di proporre un’alternativa italiana al McDonalds americano nel mondo.

E’ un peccato che il ministero della salute non sia stato coinvolto in questo progetto. Leggiamo infatti sul suo sito che  ‘secondo le attuali conoscenze scientifiche, l’obesità, un’alimentazione non corretta e errori dietetici sono un importante fattore di rischio per la salute dell’individuo e sono in stretta correlazione con numerose patologie: alcuni tipi di tumori, il diabete mellito di tipo 2, le malattie cardiovascolari ischemiche, l’artrosi, l’osteoporosi, la litiasi biliare, lo sviluppo di carie dentarie e le patologie da carenza di ferro e carenza di iodio. Inoltre, la prevenzione dell’obesità è indispensabile anche per gli elevati costi economici e sociali che gravano sul Servizio sanitario nazionale: l’eccesso di peso e le malattie conseguenti costano 22,8 miliardi di euro ogni anno, di cui ben 14,6 (il 64%) in ricoveri ospedalieri. Ecco le iniziative in corso:

È stata istituita una Commissione ministeriale per la nutrizione allo scopo di implementare programmi di educazione alimentare.

Per diffondere e sviluppare una “cultura della corretta alimentazione”, il Ministero della salute si avvia a realizzare una serie di campagne di comunicazione istituzionale indirizzate all’intera popolazione ma focalizzando l’attenzione soprattutto sui bambini.

In accordo con il Ministero dell’istruzione, dell’università e ricerca sono previsti momenti formativi e informativi all’interno delle scuole medie anche attraverso la distribuzione di sei libretti contenenti le informazioni di base per una buona salute.

ancora, in tema di obesita’ leggiamo su

http://www.ministerosalute.it/dettaglio/pdPrimoPiano.jsp?sub=7&id=92&area=ministero%09&colore=2&lang=it

bambini mangiano troppo e male.  Quindici ragazzi su 100, in un’età critica come quella tra i 6 e i 14 anni, sono obesi. Purtroppo, non si tratta di semplice sovrappeso: in alcuni casi, ci troviamo di fronte a bambini francamente obesi. Non solo, il 30% dei bambini obesi già soffre di malattie che un tempo colpivano solo gli adulti come l’ipertensione e il colesterolo alto.

I bambini e gli adolescenti, quindi, non vanno lasciati liberi di mangiare come e quanto vogliono perché possono incorrere in errori dannosi per la loro salute anche in futuro. Per questo motivo, è fondamentale, nel caso dell’obesità infantile, il ruolo che svolgono i genitori nell’educazione e nelle abitudini alimentari, ed è opportuno che il ragazzo stesso maturi una propria coscienza su ciò che fa bene o male alla sua salute e impari a distinguere comportamenti corretti in tema di alimentazione.
Sicuramente è difficile far amare frutta e verdura ai bambini, convincerli a dosare i dolci e i grassi, invogliarli ad apprezzare la varietà dei cibi ed abituarli a non eccedere nelle quantità, ma è uno sforzo necessario per insegnare loro a non compromettere la propria salute.

Aggiungo: Circa 34.2% degli italiani sono sovrappeso e 9.8% sono obesi (S.G: 2007).  Secondo stime, l’obesita’ conta per un 3% delle totali spese per la salute (su un PIL di 0.24%) (Romano: 2004).  Perche’, dunque, gli italiani stanno passando da una dieta di tipo mediterraneo (che consiste di alimenti di stagione e freschi) ad una dieta tipica delle societa’ industrializzate (fatta prevalentemente di alimenti in parte o interamente preparati dall’industria, che spesso hanno ‘viaggiato’ per raggiungere i punti di distribuzione)?

Stefania Puxeddu


Questa settimana su Trashfood

Come-si-dice-bresaola in Uruguay? Prendi la Bresaola IGP della Valtellina. Quanti sanno cosa significa prodotto IGP? E allora non vi stupite se la carne -stavolta mal conservata- arriva dall’Uruguay.

Nutri-quiz, in preparazione ad un post sui fitosteroli, quali sono le fonti principali tra ortaggi, frutta secca e cereali?

Et.chettibus. Ancora 24 ore di tempo per scoprire il prodotto misterioso non ancora identificato. A domani per la soluzione.

Grassi idrogenati cercasi. Occhio alle etichette, tra luoghi comuni e messaggi fuorvianti, ecco i grassi idrogenati.


Acquacoltura: la filiera del gambero (4) – Conclusioni

Gli strumenti definiti dalla Doha Agenda del 2001 comprendono un migliore accesso al mercato ma anche accordi ambientali. Non e’ chiaro, comunque, come gli obiettivi del libero commercio definiti dal WTO possano conciliarsi con quelli dello sviluppo sostenibile. Nella sua relazione ‘Sustainable Shrimp Culture Development‘ la FAO riconosce come questo tipo di acquacoltura abbia messo in dubbio gli obiettivi di crescita sostenibile, per via del suo impatto all’ambiente e alle comunità locali che deve salvaguardare. Inoltre riconosce che alcune realtà e sistemi di acquacoltura nel mondo funzionano senza causare tali disagi e riconosce come sia necessario proprio identificare tali pratiche e promuoverle come possibile contributo allo sviluppo sostenibile delle aree costiere.

Stefania Puxeddu

Alcune iniziative locali riguardano l’introduzione di standard di certificazione biologica: EJF ci riferisce che una serie di prodotti derivati da minerali e piante medicinali sono stati prodotti da compagnie specializzate e che un numero di aziende con certificazione sono sorte già dal 1993 in diversi paesi latino-americani e in Asia (EJF: 2004). Altri tentativi sono stati fatti localmente per ridurre l’impatto dell’acquacoltura , con diversi risultati: ad es. in India, nonostante l’introduzione di una regolamentazione costiera nel 1996, il successivo Aquaculture Bill ha permesso alle aziende esistenti di continuare ad operare allo stesso modo ma all’interno di una licenza. In Venezuela, Margarita Island, la pesca locale sembra aver migliorato in seguito all’implementazione di una nuova legge che punisce la pesca a strascico illegale entro le 6 miglia nautiche dalla costa (EJF: 2003).

Quali le soluzioni? Certamente l’impatto di entrambe (pesca a strascico e acquacoltura) dovrebbe essere monitorato in modo tale che
– la produzione e il by catch vengano ridotti o mitigati
– una infrastruttura ambientale venga creata
– venga promossa la responsabilità delle ditte che operano lungo l’intera filiera (corporate responsibility)
– venga promossa la conoscenza di queste problematiche fra i consumatori – ad es. la differenza nel contenuto nutrizionale fra il prodotto di pesca e quello di allevamento
– la preferenza venga sempre data alle economie locali, promuovendo quindi un commercio sostenibile che tenga conto anche dei punti deboli delle comunita’ coinvolte

Concludo con un grafico che mostra l’andamento del commercio di questa specie sui mercati internazionali: si puo’ notare l’ultimo prezzo, 1764 Yen per 5X 108Kg per blocco. Questo rappresenta il prezzo di un mercato secondario di circa 200 Yen per Kg (ovvero, per fare un confronto con la sterlina, £1 per Kg – venduto poi a circa £20 nei supermercati). Due considerazioni: il mercato dei gamberi congelati mostra un un livello basso nel 2003 (le date sono piccole lungo la linea orizzontale), probabilmente questo riflette la disputa commerciale del 2003: in seguito ad una petizione dell’associazione produttori del Sud US contro la competizione ‘ingiusta’ dei gamberi asiatici (all’epoca si parlo’ di usare le regolamentazioni relative all’antidumping). In un contesto simile ma piu’ recente (2007), la WTO ha dato ragione alla causa dell’Ecuador contro gli US.
bloomberg.pdf


Acquacoltura: la filiera del gambero (3) – Impatto socio-economico e culturale; contesto politico

Impatto socio-economico e culturale: la pesca a strascico ha contribuito positivamente allo sviluppo della tecnologia nel settore così come a creare investimenti di capitali stranieri nei paesi in via di sviluppo, ma allo stesso tempo ha contribuito al declino delle piccole realtà artigianali e ha messo in pericolo la sicurezza alimentare. L’acquacoltura ha reso la specie ittica del gambero più accessibile ai consumatori, ma allo stesso tempo la preferenza da parte del produttore di una specie rispetto alle altre (la specie Penaeus Monodon) ha paradossalmente limitato la loro scelta.

Secondo diversi gruppi di società civile e di volontari, la coltura del gambero ha particolarmente contribuito al declino delle comunità di pescatori in molte zone nel mondo e ha influenzato negativamente la sicurezza alimentare (l’Asia e il Pacifico rappresentano il 68% delle popolazioni dei paesi poveri a livello globale e il 64% di quelli che soffrono la fame (FAO:2006). Nella maggior parte dei casi, le aree usate per i vivai vengono occupate con la forza e illegalmente, diventando quindi spesso scena di conflitti sociali. Occasionalmente, le comunità di pescatori, incapaci di competere con le aziende di gamberi, utilizzano esplosivi per migliorare il volume della loro pesca (ad es. nelle Filippine). Le condizioni di lavoro nelle aziende sono dure: bambini e donne sono spesso sfruttati. Inoltre, i conflitti sociali hanno portato allo sgretolamento dei valori sociali e culturali tradizionali di queste popolazioni, e in molti casi questo fenomeno ha portato alla crescita dei tassi di criminalità e alla trasmissione di malattie sessuali.

Contesto politico – la cornice politica che tratta il settore ittico è presente a livello nazionale e globale:

a) In base alla convenzione delle Nazioni Unite sulle regolamentazioni Law of the Sea and Living Marine Resources – ratificata da 130 nazioni – gli stati hanno l’obbligo di proteggere e preservare l’ambiente marino e conservare e gestire le risorse viventi nella loro ‘Exclusive Economic Zone’. Invece, l’azione statale si è indebolita in seguito all’introduzione del libero commercio globale, perché ha creato una situazione in cui gli attori locali (ad es. i produttori di gamberi) devono interagire con attori internazionali (ad es. i distributori internazionali) e la loro interazione tipicamente riguarda standard di sicurezza alimentare o prezzi
b) Il codice di condotta FAO (Code of Conduct for Responsible Fisheries and International Plans of Action) è stato firmato da oltre 60 nazioni attive nella pesca e fornisce una base per la gestione sostenibile dei vivai di gamberi. Attualmente è un codice volontario
c) In Europa, la comunità ha stabilito delle quote (quantità di pesce) che ogni stato membro è tenuto a seguire. Questo sistema però non riesce a tenere il passo con la competizione del mercato globale
d) Durante il World Summit sullo sviluppo sostenibile di Johannesburg del 2002, gli stati partecipanti hanno promesso di mantenere o ricostituire le ‘riserve’ marine entro il 2015.

Un’importante considerazione da fare riguarda il commercio, ovvero la forza trainante dell’industria del gambero negli ultimi decenni. Attualmente, nonostante i proclami di ‘libero commercio’, un numero di prodotti ittici a valore aggiunto viene protetto da alte tariffe; altri due tipi di barriere vengono applicate, quelle relative alla sicurezza alimentare (previste dagli accordi sulle misure sanitarie e fito-sanitarie) e quelle relative agli accordi sulle barriere tecniche al commercio (rispettivamente Agreement on Sanitary and Phyto-Sanitary Measures e Agreement on Technical Barriers to Trade). Le prime hanno un ruolo particolare in quanto sono a volte usate come strumento protezionistico. Un buon esempio è fornito dalla disputa del 2006-7 fra Cina e US: in quell’occasione, un carico di prodotti ittici d’allevamento provenienti dalla Cina e risultato positivo a diverse sostanze chimiche (il nitrofurano, il verde malachite, il violetto genziana e il fluoroquinolone – Gianna ci può spiegare meglio cosa sono), venne bloccato in quanto nessuna di queste sostanze viene utilizzata in US.

Inoltre, sebbene la maggior parte dei paesi in via di sviluppo non lavori i propri prodotti prima di esportarli, la differenza del costo della manodopera ha incoraggiato lo spostamento di questa fase altrove. Una ditta britannica ha deciso di tagliare posti di lavoro in Scozia e spedire i propri crostacei, pescati in acque scozzesi, in Tailandia per le operazioni di pulizia e impacchettamento, per poi rispedirli in UK per la vendita (The Scotsman: 2006; The Sunday Times: 2007).

Si pensa che questo tipo di outsourcing produca esternalità di 47.500 tonnellate di CO2 prodotte dai carburanti aerei che, secondo gli ambientalisti, producono un impatto all’ambiente quantificabile in circa £2-2.5 milioni all’anno. La stima delle miglia create dal commercio di generi alimentari rappresenta circa il 13% dell’impatto causato dal trasporto aereo , considerando che le esportazioni sono in crescita di circa il 10% (Garnett: 2003); il gambero, come commodity, copre circa 7300 ‘miglia’ aeree (verso l’UK) e produce 0.03 (Kg per pacco) emissioni CO2 via mare e 0.84 via aerea (Usborne, Outhwaite and Armstrong: 2007).

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Acquacoltura: la filiera del gambero (2) – Impatto sulla salute e ambiente

L’industria ittica è un’industria globale; la Cina guida il settore con una produzione di 47.5 MT nel 2004, di cui 16.9 e 30.6 provenienti dalla pesca e dall’acquacoltura rispettivamente (FAO:2006) ; la Cina é anche il maggiore produttore di gamberi con 1.3MT, seguita da Indonesia, India e Tailandia (FAO Globefish: 2004). La produzione globale di questa specie è cresciuta da 2.4 MT nel 1987 a 4.2 MT nel 2000, 3 milioni dei quali arrivano dalla pesca (EJF: 2003). Il Pacifico é l’area dove buona parte della produzione avviene e dove ha raggiunto livelli di 2.4 MT (dati del 1999). La produzione tipicamente avviene in due modi: tramite l’uso delle reti a strascico o tramite allevamento.

La pesca dei gamberi I gamberi sono pescati con l’ausilio di pescherecci dotati di reti fini che permettono di pescare tutto quanto si trovi nel loro passaggio. Questo significa che per pescare un kg di gamberi, si tira su con la rete un ‘by-catch’ (ovvero altre specie marine non volute) di 5 volte tanto nelle zone temperate e di 10 – 21 volte tanto in quelle tropicali (EJF: 2003). Questa pesca non voluta è poi ributtata, spesso morta, nel mare. La filiera del gambero produce 1/3 del by-catch globale ma contribuisce solo al 2% nella produzione globale di prodotti ittici. Non è ancora chiaro l’impatto che questo metodo di pesca ha nelle regioni tropicali, poiché fu originariamente introdotta nelle zone di acque fredde, e avviene in acque poco profonde, habitat di specie di modesta pezzatura e necessarie per la catena alimentare marina. D’altra parte, i gamberi in particolare traggono beneficio dalla pesca a strascico (EJF: 2003 – Northern Great Barrier Reef), perché questa allontana le specie predatrici; inoltre il by-catch di per sé inizia a essere un problema quando rappresenta il 80-90% della pesca totale in un’area in cui la maggior parte delle specie sono in estinzione. Un’altra preoccupazione è rappresentata dalla possibile dipendenza di alcune specie (ad es. i delfini) al by-catch che non viene mangiato dagli ‘spazzini’ del mare ma anche dal fatto che questi avanzi, raggiungendo il fondo del mare, si decompongono, producendo quindi un impatto ambientale (il pesce in decomposizione utilizza ossigeno).
Per quanto riguarda invece la coltura del gambero, il 99% avviene nei paesi in via di sviluppo ed ha sollevato diversi dubbi circa la sua sostenibilità.

Acquacoltura e pesca a confronto Innanzitutto, ci si chiede se questo tipo di acquacoltura sia un vantaggio o svantaggio per la pesca. In poche parole, sebbene l’acquacoltura sia una soluzione potenziale al problema della disponibilità, è ugualmente un fattore che contribuisce al declino della fauna marina globale (e quindi, di conseguenza, della nostra pesca) in seguito all’uso prolungato di sostanze chimiche per la prevenzione di malattie e di ormoni che incoraggiano la crescita rapida.

Diversi problemi ambientali possono essere identificati:

a)perdita di importanti ecosistemi – vaste aree costiere, come quelle dove crescono le mangrovie, vengono deforestate per creare vivai per i gamberi, contribuendo alla degradazione dell’ecosistema locale; la produttività del vivaio diminuisce comunque gradualmente, in seguito all’acidificazione, inquinamento, salinizzazione e all’insorgenza di malattie infettive. In Asia, dove tipicamente i vivai vengono ricavati da aree tradizionalmente usate come risaie, una volta inutilizzabili per i gamberi, non possono essere riconvertiti in risaie;

b)uso di antibiotici, fungicidi, alghicidi e pesticidi: contribuisce ad inquinare l’acqua presente nel fondo e nel terreno circostante (salinizzazione) tramite l’infiltrazione dal vivaio alla terraferma;

c)in alcune aree, il cambio nel flusso e nella densità dell’acqua ha provocato modificazioni delle specie botaniche

d)le specie di vivaio che riescono a scappare dal vivaio si riproducono con le specie selvatiche, spesso lottano con loro per il cibo e trasmettono malattie

e)specie selvatiche di pesce vengono utilizzate per produrre i mangimi dati poi ai gamberi

Aspetti nutrizionali Da un punto di vista nutrizionale, la composizione degli acidi grassi dei lipidi dei gamberi di allevamento è differente da quelli di mare: i primi hanno alti livelli di Omega6 e bassi livelli di Omega3 con un’ inferiore proporzione degli O3/O6 rispetto a quelli di mare (Chanmugam, P. et al: 1986). Questo dipende dal fatto che mentre i gamberi di mare si cibano di alghe e plankton, quelli di allevamento vengono nutriti con mangimi industriali, che tipicamente hanno un’alta percentuale di Omega6. Inoltre, la coltura intensiva o semi-intensiva comporta un uso di mangime derivato dal pesce di oltre il doppio del peso dei gamberi prodotti, a scapito delle specie selvatiche. L’uso di un particolare antibiotico, il cloramfenicolo, è stato messo in relazione all’insorgere dell’anemia aplastica e ad altri problemi di salute nell’uomo.


Acquacoltura: la filiera del gambero – Introduzione

Il consumo di prodotti ittici è raddoppiato dagli anni 1970, diventando uno dei settori maggiormente commercializzati a livello globale: in particolare il segmento dei gamberi rappresenta la più importante commodity con un valore di circa il 16.5% del commercio internazionale (FAO: 2006). L’acquacoltura – ovvero la coltura di un numero di specie marine in spazi confinati – è una delle grandi trasformazioni dei nostri tempi, che ha avuto un enorme impatto nella vita marina e in quella di molte comunità sia dei paesi in via di sviluppo che di quelli industrializzati. Negli ultimi 20 anni, l’acquacoltura è dunque cresciuta in maniera rilevante e ora fornisce oltre il 43% della fornitura globale di pesce.

Le ragioni dell’aumento del consumo di pesce e specie ittiche in genere non sono solo dovute a un cambio della dieta, ma allo stesso tempo a ragioni di tipo economico e culturale. I benefici di una dieta ricca di pesce, per via del suo contenuto di Omega3, sono stati ampiamente documentati dalla comunità scientifica e dai media e sono reiterati nella piramide alimentare dei paesi occidentali. Il pesce (e in particolare il pesce azzurro) e le altre specie (crostacei, molluschi etc.) rappresentano oggi per molti un’importante – e relativamente economica – fonte di proteine animali e di minerali. Il gambero, oltre ad essere un prodotto costoso nei paesi industrializzati, rappresenta una fonte di sopravvivenza in molte comunità dei paesi in via di sviluppo (particolarmente di quelli che si affacciano lungo le coste).

Perché dunque mangiamo tanti gamberi? Secondo il Prof. Steven D. Levitt (Chicago University, autore di Freakonomics), la ragione principale dell’alto consumo di questa specie è il basso prezzo – gli US sono il maggiore importatore di questi crostacei, seguiti dal Giappone e la EU. La seconda ragione è la percezione che i consumatori hanno dei benefici alla salute (Levitt: 2007). Si pescano i gamberi perché questa specie rappresenta un certo ‘valore’ per l’industria e allo stesso tempo è capace di sopportare i ritmi della pesca intensiva. Secondo la Environmental Justice Foundation, alcune zone resistono per molto tempo prima di essere affette dal declino.

La spettacolare industrializzazione del settore ittico come la conosciamo ora è il risultato di un numero di progetti che comprendono l’introduzione di strumenti tecnologici dai paesi industrializzati verso quelli in via di sviluppo, negoziazioni multilaterali, sussidi e lo sviluppo del commercio internazionale. L’industria del gambero che si è rapidamente sviluppata alla fine degli anni 80, ha creato un conflitto fra la necessità di creare sistemi di sostegno alla salute e all’ambiente e la degradazione ecologica che è risultata dalla produzione intensiva e il commercio. Vediamo come (vedi tabella).acquacoltura.pdf

Stefania Puxeddu


L'altra settimana su Trashfood

-La-FAO-tra-obesità-e-denutrizione Si è concluso a Roma il vertice FAO. Tutti concordano che è stato un fallimento. Rivalità tra stati, politica, interessi diversi, boicottaggio da prte di alcuni, hanno portato ad un vertice dai risultati inconcludenti. La FAO, sulla carta è un organismo dell’ONU che dovrebbe combattere la fame nel mondo. Purtroppo i risultati dal 1945, anno della sua istituzione non sono affatto incoraggianti.

-Guadagagnare salute, il programma ministeriale muove i suoi passi tra i vari comuni e regioni e italiane. Nella tappa marchigiana, si parla di rete, di importanza di coinvolgere piu’ protagonisti pubblici e privati (Università, centri di ricerca, Media, Aziende Sanitarie, Aziende alimentari ecc…) che nel territorio possono essere importanti ed esercitare ruoli diversi nella promozione della salute. Passi è uno dei progetti avviato dal 2005 sul territorio nazionale. Piccoli passi, a mia opinione, almeno a giudicare dagli scarni risultati conseguiti fino ad oggi.

-A casa mia maionese significa uova, olio d’oliva, succo di limone e aceto. Unilever e Kraft, i due big della produzione di maionese non la pensano come me. La leggerezza della maionese, in fondo è solo una emulsione olio/acqua.

-Mi sono sempre chiesta quale fosse la composizione dei grassi vegetali della Nutella, la colazione dei campioni della nazionale. I bene informati dicono che ci sia anche olio di palma e parte la campagna di sensibilizzazione di Greenpeace.

-Viaggio tra gli sponsor delle nazionali di calcio impegnate agli europei. Ma guarda a cosa hanno pensato in Turchia, producono la Cola Turka, in diverse varianti, poteva mancare quella al Cappuccino?